Il peso e il valore della tradizione in "Sangue e latte": intervista all'autore Eugenio Di Donato

Nove mesi di vita intrauterina possono dirsi vita? L'interrogativo non è quello di un filosofo alle prese con la riflessione sull'esistenza, ma è la domanda di un padre che attendeva la nascita di suo figlio, che "ha scelto" di non farsi conoscere. Per un arresto cardiaco, il neonato muore ancor prima di assaporare la vita, segnando irrimediabilmente i suoi genitori.

Di Donato E., "Saungue e latte", 
El Doctor Sax, 2020.

Quando Tiziano è venuto alla luce la vita che solo poche ore prima pulsava dentro la pancia era sparita. Arresto cardiaco diceva il referto. Dopo il sangue è arrivato anche il latte, colava dai seni a gocce dense e bianche a reclamare il suo ruolo nella profezia. Il cuore di Tiziano si è fermato.

A narrare le vicende di un'anima tormentata è il padre, un uomo smarrito, che ricorda il sangue e il latte, ovvero la vita che sgorga anche quando tutto sembra ormai fermo. Il rapporto con Agata è messo in crisi (o forse ci era già?) e la via di fuga dall'implosione dei pensieri è la psicoterapia.

"Sangue e latte", edito da "El Doctor Sax", è un romanzo breve dalla forza travolgente, in cui la tradizione fa da demiurgo all'identità e dove l'individuo lotta per staccarsene, alla ricerca della propria indipendenza.

E io mi sono comportato nello stesso modo, ho permesso al territorio, alla tradizione, a ciò che ho visto fare di cucirmi addosso un'identità.

Eugenio Di Donato, con parole mirate, oltre a mettere in luce sentimenti sinceri e trasparenti, scandaglia un terreno ricco di spunti, dove la vita si confonde con la morte, la progenie con i padri, le consuetudini con la ricerca. Un uomo in lotta con se stesso, in bilico tra la certezza del passato e la nebbia del futuro.

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Per conoscere qualche dettaglio in più del romanzo e dell'autore, vi lascio alle sue preziose parole della seguente intervista.

Da dove e come nasce "Sangue e latte"?

"Sangue e Latte" nasce dall’esigenza e dal desiderio di dire. Del parlare con schiettezza dei meccanismi comportamentali che costituivano il muro possente che confinava i miei movimenti. Un modo di intendere le cose figlio dell’ambiente in cui ero immerso e allo stesso tempo l’ambiente stesso.
Un’immensa inerzia che io chiamo lo «stato» delle cose che riscontro nei luoghi e nelle persone e che ha a che fare con «l’architettura» con cui è pensata la civiltà che abitiamo.
La civiltà è disegnata in un modo tale che, se decidiamo di cambiare delle abitudini acquisite, siamo costretti a scontrarci con questa inerzia paralizzante.
"Sangue e Latte" è il tentativo di raccontare un pezzo di questa inerzia, di metterne a nudo un aspetto. È stato concepito come uno strumento smascheratore, una leva con cui smontare la «staticità» che impedisce lo sviluppo di un qualunque progetto personale che abbia il desiderio di uscire dal perimetro ristretto di ciò che è dato.

Cosa rappresentano i due elementi del titolo?

Il sangue e il latte hanno molto in comune, intanto sono due liquidi, entrambi cambiano forma e poi sono due sostanze nutritive. Il sangue che scorre nelle vene e il latte materno. Il sangue mestruale e lo sperma simboleggiano la vita. Sono la vita. E la vita si muove, cambia forma, è liquida.
"Sangue e Latte" è poi un detto, un modo di dire abruzzese - che ho scoperto di recente anche siciliano-, che allude alla prosperità:«Cresci e diventa uomo», «Cresci e diventa donna».

A chi è rivolto il romanzo? Hai avuto in mente un lettore ideale durante la stesura del libro?

Quando scrivevo il romanzo, intendo durante le varie stesure, non mi sono mai concentrato sul pubblico. Mi sono invece concentrato su ciò che volessi dire, più ero preciso, più il libro avrebbe colto nel segno. Ho inteso "Sangue e latte", e in genere intendo i libri, come uno strumento. Il lettore avrebbe dovuto afferrarlo. L’ho pensato per le mani, come se la sua forma, in questo caso la forma delle parole dovesse suggerire al lettore come usarlo, e allora la mia leva doveva essere il più impugnabile possibile. Breve, concisa, precisa.
Leggera da trasportare e agevole da usare. Ho provato a disegnare un testo areodinamico, mentre scrivevo pensavo a ridurre l’attrito tra le parole per raccontare l’inerzia nel modo più schietto e oggettivo possibile, così che dopo la lettura, e io sono stato il primo lettore, il lettore si potesse muovere più leggero.
Quindi leggetelo, anzi leggete. Leggere è uno strumento, e l’unico modo che conosco per far emergere il valore di uno strumento è usarlo.

Qual è il peso e il valore della tradizione nella vita del protagonista e nella società contemporanea?

Il peso è enorme. È un peso così enorme che nemmeno ci accorgiamo di indossarlo. Il peso è il materiale di cui siamo fatti. Si chiama Civiltà. Ed è un peso che è stato molto utile, ci ha permesso di essere ciò che siamo. Solo che si è fatto ingombrante. Così ingombrante che non si vede, è diventato lo spazio. Bisogna ridisegnare la civiltà per cambiare forma al peso.
Dare spazio a istanze vitali, scacciare abitudini morte e mettere in atto moti che abbiano visione d’insieme.
La tradizione non ha visione di insieme. In genere pesca nel passato, un passato molto dissimile dal presente, che non gli assomiglia e che quindi non può costituire un modello di riferimento a cui ispirarsi, e il cui scavo per forza di cose risulta di nessun aiuto.
Non parlo del passato in senso assoluto, ma del modo statico in cui lo interpreta la tradizione. La tradizione tende ad accreditare i risultati ottenuti nel passato come perfetti, e quindi non migliorabili, statici, la tradizione è dunque il luogo dove l’inerzia di cui parlo trova il suo nutrimento prediletto.

Nel libro, ci sono riferimenti al tema del lavoro: che ruolo ha nella formazione dell'individuo?

È una domanda colossale, prima di rispondere bisognerebbe provare a definire la parola lavoro. O quantomeno a raccontarla. Comunque sia, il lavoro allo stato attuale esercita una pressione enorme sull’individuo. Sia che lavori, sia che non lavori, sia che ami il proprio lavoro, sia che lo detesti.
Il punto cruciale è il verso di questa pressione. Se la pressione si converte in spinta propulsiva, il lavoro diventa il mezzo con cui portiamo avanti un’idea, e allora sì che il suo contributo si fa determinate nella fioritura dell’individuo. In caso contrario il lavoro contribuisce a rafforzare lo stato delle cose e diventa uno degli strumenti prediletti di cui l’inerzia si serve per mantenere la sua spinta conservativa.

Un episodio che grava sulla vita del protagonista e che segna il lettore è la morte prematura del figlio neonato. Una lettura simbolica del fatto può suggerire che il nostro futuro è incerto, se non addirittura in pericolo?

Non posso parlare del futuro dell’umanità, non lo so.
Quello che so è che il futuro di ogni singola persona a me sembra incerto, almeno il mio lo è. E questa incertezza, se vissuta con curiosità, è stimolante. Va però fatta una grossa distinzione tra incertezza in presenza di strumenti materiali e culturali e la precarietà. Se le persone cadono in uno stato di miseria, allora sì che il loro futuro è in pericolo. Lo è però, in pericolo, anche quando si cade in uno stato di sussistenza, uno stato subdolo che non mette in pericolo la mera esistenza del individuo ma la sua vita e il suo sviluppo. Li impoverisce in modo orribile.

L'identità dell'uomo può dirsi completa senza l'esperienza tragica?

Credo che la tragicità dell’esperienza è un sentimento che ognuno di noi prima o poi viva, sia anche solo il vivere il proprio decadimento fisico. Che poi a pensarci bene è comico.
Penso che questo pensiero, il voler attribuire al tragico, al dolore, un valore tale per cui senza tragicità addirittura l’esperienza di vita sarebbe incompleta o minore sia un retaggio della tradizione.
Pensi se mancasse nella vita la comicità. O l’ironia. Allora si che l’esperienza di vita sarebbe incompleta.

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