Tornare alla vita dopo la shoah: "Il pane perduto" e la preziosa testimonianza di Edith Bruck

Quando giunsero all'improvviso per sradicarli dalla loro casa e deportarli, nella confusione e smarrimento generale, la madre pensava alle pagnotte di pane, disperata al pensiero di abbandonarle lì, indifese e incustodite, come a volerle difenderle. Questa è una parte del libro che mi porterò dentro. L'immagine della madre preoccupata per il pane perduto. Già, perché le persone deportate persero il pane, ovvero il cibo, ma anche il calore familiare, il profumo della quotidianità, la protezione della loro casa che il pane stesso simboleggia. 

"La madre parlava delle pagnotte da infornare mentre buttava alla rinfusa dei vestiti nell'unica valigia e nei sacchi."

Bruck E., "Il pane perduto",
La Nave di Teseo, 2021.

Edith Bruck, nel suo ultimo libro dedicato alla shoah, testimonia quanto accaduto a lei e alla sua famiglia, di origine ungherese. Deportati nel 1944, raggiunsero un ghetto prima, diversi campi poi. La famiglia fu smembrata, ma lei, all'epoca adolescente, rimase con la sorella maggiore Judith: l'appoggio l'una dell'altra probabilmente contribuì alla loro salvezza.

"La madre ripeteva "il pane, il pane", come se volesse salutare le pagnotte e difenderle."

Ne "Il pane perduto" il vero oggetto del racconto, però, non è la terribile esperienza della deportazione in sé e per sé, quanto il dopo: il tentativo di reintregrarsi alla società da sopravvissute. Nulla andò come avevano immaginato e sperato, impossibile ricucire i legami recisi, tornare alla propria casa o riprendere la vita da dove la si era lasciata. Tutto distrutto. Adattarsi alla nuova vita è stata una parte altrettanto dolorosa.

Candidato al Premio Strega, il romanzo nasce dall'urgenza della scrittrice, che trovò accoglienza in Italia, di non dimenticare, o meglio di scrivere quanto più possibile prima che la sua memoria venga compromessa dalla malattia dell'anzianità. 

Il racconto si apre con l'immagine di una bambina scalza, che girovaga libera nella sua città con le trecce strette da lacci, attratta dagli emarginati, come una donna impazzita per amore che le afferra una delle trecce sfilandole un laccio. Quella bambina, la cui distanza è sottolineata dall'uso della terza persona, è la stessa narratrice che pian piano accorcia il distacco per svelarsi in prima persona. Una sorta di profezia, col senno di poi, sembra averle preannunciato il destino di una imminente emarginazione. 

All'interno del campo dove viene strappata via dalla madre, dal padre e dai fratelli, quelle trecce vengono rasate e ogni tratto fisico distintivo livellato, tentando di fare altrettanto con la personalità dell'individuo. Ancora adolescente, nel pieno della ricerca della propria identità, la protagonista si aggrappa alla sorella maggiore come un'áncora. 

Sopravvissute alla tragedia, le sorelle cercano di ricucire lo strappo e reintegrarsi nella società, ma si rendono presto conto del vuoto che le separa dal resto, addirittura dagli stessi familiari. I legami si sono sgretolati insieme alla loro dimora: il pane è andato perduto per sempre. Persino la promessa della terra palestinese si rivela una delusione. La necessità di raccontare quanto accaduto, di dare voce agli ammassi di scheletri privati di anima e corpo, è ciò che guida la protagonista verso il suo futuro: sentendosi addosso l'incarico di testimoniare, Edith Bruck riesce a "tornare alla realtà" per perseguire il suo obiettivo, che è quello di scrivere.

La storia è narrata in modo secco, come ad aggiungere "solo" alcuni dettagli mancanti al triste capitolo della Storia del Novecento: inutile ricamarci su aggiungendo particolari dolorosi a una ferita ancora aperta. 

"Ci vorrebbero parole nuove, anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia."

Commovente la "Lettera a Dio" che chiude il libro: un Dio che non viene rifiutato o colpevolizzato, perché la rabbia è ormai metabolizzata. L'uomo ha bisogno di credere in Qualcosa o in Qualcuno: il Credo, qualsiasi esso sia, è speranza di sopravvivenza e possibilità di rinascita.

Inoltre, il libro di Edith Bruck aggiunge alla testimonianza del mentre e del dopo Auschwitz una riflessione sulla attuale situazione politica e sociale, sulla quale vale la pena soffermarsi. Afferma l'autrice:

Da figlia adottiva dell'Italia, che mi ha dato molto più del pane quotidiano, e non posso che essergliene grata, oggi sono molto turbata per il Paese e per l'Europa, dove soffia un vento inquinato di nuovi fascismi, razzismi, nazionalismi, antisemitismi, che io sento doppiamente; piante velenose che non sono mai state sradicate e buttano nuovi rami, foglie che il popolo imboccato mangia, ascoltando le voci grosse nel suo nome, affamato com'è di identità forte, urlata, e italianità pura, bianca; che tristezza, che periodo.

Nonostante la preziosa testimonianza che esso ci fornisce, "Il pane perduto" non mi ha colpito altrettanto sul piano stilistico. Lo stile essenziale e privo di sentimentalismi è più che adatto, ma in alcuni passaggi mi è sembrato poco accurato. È sufficiente una tematica così rilevante per decretare il valore di un libro a prescindere dal resto? 

Nel complesso, si tratta di una lettura che consiglio, perché leggere determinate testimonianze significa fornire il proprio contributo nel combattere il silenzio, lottare contro il "vento inquinato" e sradicare le crescenti "piante velenose" che Edith Bruck denuncia.

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