"Il grande me": un romanzo sulla fragile potenza del papà, dio caduco

Papà, una delle prime parole che si pronuncia da piccoli e che ci illudiamo di poter ripetere in eterno. Già, perché i padri non muoiono, sono le nostre guide, in nostri eroi. Poi arriva la vecchiaia e se li prende. O peggio, il cancro.

Cancro al pancreas, per l'esattezza. Quello che ti trasforma e ti divora in pochi mesi. Ne "Il grande me", Carla racconta gli ultimi giorni di vita di suo padre, riportando alla memoria aneddoti del passato, a descrivere una personalità forte, anticonformista, creativa e sensibile.

Giurickovic Dato A., "Il grande me",
Fazi Editore, 2020.

Il bambino che contraddiceva il professore di filosofia dando una prova ontologica dell'inesistenza di Dio, il musicista che suonava e cantava infondendo la sua passione ai tre figli, il senatore che sognava una politica scevra di ogni forma di corruzione, ora è un uomo in un corpo sfinito, sporco, spento, che si trascina avanti e indietro sul treno per raggiungere l'ospedale, ma che ancora trova la forza di ribellarsi e rovescia decine di bottiglie di Coca-Coca nello scarico, come ennesimo gesto rivoluzionario. Come a dire "io non ci sto". Ma come ribellarsi alla morte?

Carla, Mario e Laura, i suoi "bambini" come li chiama ancora lui nonostante l'età adulta, lo raggiungono nella casa di Milano, dove si trasferì dopo il divorzio. Qui tornano a condividere spazi e quotidianità come quando erano piccoli, ma l'ombra della malattia incombe sul loro nido.

Il "grande me", il Dio, l'esempio idolatrato da Carla si spegne gradualmente, rivelando un segreto che gli pesava sul petto. Un dio può davvero morire? Nell'attesa che il corpo avvilito regredisca, la rabbia distrugge le proprie certezze e le ultime domande che avremmo voluto porre risuonano nella stanza vuota.

Il titolo rimanda all'idea che la figlia ha del padre: un "io" che trova conforto e motivo d'esistere nella magnificenza del genitore, sulla quale si è forgiato pur di essere amato e osannato, meritando l'attenzione di un essere considerato supremo. Lo stesso padre si reputa "superlativo": il più bello, il più bravo, il più competente. Come un perenne bambino che ingigantisce la percezione di sé.

Sembra un bambino che vede per la prima volta la neve, ma è un uomo che la vede per l'ultima volta e lo sa.

Tanta dolcezza vi ho trovato nella descrizione di questo padre "enorme" che si fa ogni giorno più "piccolo" per via della malattia, che se lo divora sempre più velocemente, senza un briciolo di pietà per quel corpo che ospita una mente tanto brillante agli occhi incantati della figlia. Quest'ultima gli sta accanto più che può, lottando contro la tirannia del tempo che accelera e sfruttando ogni istante insieme, tanto da sentirsi soffocare delle volte e, al tempo stesso, in colpa se si allontana a prendere una boccata d'aria.

Quanto è difficile dimostrare l'affetto, soprattutto ai genitori! Si tratta di un amore a cui spesso si è abituati, un amore immenso fatto di azioni quotidiane, tanto che un "ti voglio bene" o un abbraccio non trovano spazio nell'ovvietà del sentimento e va ricercato in un gesto distratto:

Io leggo, fingo un gesto di distrazione e, allargandomi sulla mia poltrona, gli tocco il braccio, rimango così, avvolta dal suo calore, il suo fianco è la mia cuccia, ci stiamo abbracciando di nascosto e lo sappiamo.

Il secondo romanzo di A. G. Dato è delicato nei pensieri, crudo nei fatti, reale nel contenuto. Ti poggia sulle spalle un lieve mantello di tristezza e malinconia, lasciandoti la voglia di chiamare tuo padre, dopo aver voltato l'ultima pagina, e chiedergli: "Qual è il tuo colore preferito?".

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