Il realismo magico indiano ne "I figli della mezzanotte"

   Un libro che mi ha fatto tribolare, "I figli della mezzanotte". Consigliatomi ai tempi dell'università dalla professoressa del corso di "Letteratura dei Paesi di Lingua Inglese", questo romanzo era rimasto da allora incagliato tra le mie "prossime letture" come un ossicino tra i denti. Durante la stasi della quarantena da Covid-19, essendomi decisa a dedicarmi ai libri interrotti, ho ripreso l'opera di Salman Rushdie convinta che fosse arrivato il suo momento.
Rushdie S., "I figli della mezzanotte",
Mondadori, 1981.
   Un libro denso, non solo per le 653 pagine, ma anche e soprattutto per la pienezza di aneddoti e personaggi presentati attraverso il ricordo confuso del narratore, Salem Sinai, il quale afferma apertamente il suo stato caotico: "Ma immaginate la confusione nella mia testa! Dove, dietro il viso ripugnante, sopra la lingua che sapeva di sapone, vicinissimo al timpano perforato, s'annidava una mente non molto ordinata e piena di cianfrusaglie come le tasche di un novenne...". Egli si rivolge alla compagna, Padma, e con lei all'interlocutore al di qua del libro che sfoglia le pagine, cercando di mettere ordine ai tasselli della storia.
    Pubblicato nel 1981, vincitore di diversi premi letterari, nonché nella classifica dei 100 libri del secolo secondo Le Monde, "I figli della mezzanotte" è un romanzo storico peculiare: sebbene profondamente legato ai fatti che si sono susseguiti in India a partire dal raggiungimento dell'indipendenza dal Regno Unito nel 1947, gli stessi fatti sono interiorizzati e riportati dal protagonista, nato lo stesso giorno del nuovo Stato: il 15 agosto. Precisamente, a mezzanotte. Figlio dell'India e dell'indipendenza, Salem percepisce una connessione viscerale con la sua patria.
   Il racconto si apre come uno squarcio su un telo: il primo capitolo, intitolato esattamente "Il lenzuolo perforato", ci regala un incipit fondamentale per comprendere la connessione Stato-individuo.

"Io sono nato nella città di Bombay... tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: sono nato nella casa di cura del dottoor Narlikar il 15 agosto 1947. E l'ora? Anche l'ora è importante. Be', diciamo di notte. No, bisogna essere più precisi... Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Quando io arrivai le lancette dell'orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Oh, diciamolo chiaro, diciamolo chiaro: nell'istante preciso in cui l'India pervenne all'indipendenza, io fui scaraventato nel mondo. [...] Grazie infatti alle tirannie occulte di quelle lancette dolcemente ossequianti io ero stato misteriosamente ammanettato alla storia, e il mio destino indissolubilmente legato a quello del mio paese. Nei tre decenni successivi non avrei avuto scampo."

   Ripercorrendo la storia dei suoi nonni prima (il dottor Aadam Aziz e la giovane Naseem Ghani) e dei genitori dopo (Ahmed Sinai e Alia, divenuta Amina), Salem segue cronologicamente i passi antecedenti allo scoccare della mezzanotte, per preparare il lettore all'ora attesa, in cui nacquero figli "liberi". Oltre a condividere la nascita con un Paese "nuovo", il tic tac del tempo scocca in un momento decisivo per i mille bambini che, come il protagonista, ricevono un dono fuori dal comune: i cosiddetti "figli della mezzanotte" posseggono ognuno un potere, come quello di leggere nel pensiero, di cui si accorge Salem. Come afferma lo stesso narratore a proposito della loro nascita, ciò che rese l'avvenimento degno di nota fu la natura di questi bambini, ognuno dei quali, "per qualche bizzarria biologica, o forse a causa di qualche potere sovrannaturale del momento, o  anche ipoteticamente per mera coincidenza, era dotato di caratteristiche, talenti o facoltà, che si possono definire soltanto miracolosi. Come se - se volete permettermi un attimo di immaginazione in quello che sarà, lo prometto, il resoconto più lucido di cui sono capace - come se la storia,  arrivando a un punto di altissima rilevanza e di enormi promesse, avesse voluto gettare, in quell'istante, il seme di un futuro che sarebbe stato realmente diverso da tutto ciò che il mondo aveva visto sino allora."
   I fatti storici, narrati da una prospettiva soggettiva, seguono una pretesa di lucidità che risulta inevitabilmente corrotta dall'interiorizzazione della realtà, tanto da divenire un tutt'uno con la finzione narrativa: impossibile discernere storia da immaginazione. Ricordando il realismo magico della letteratura ispanoamericana, il racconto inebria e confonde, descrive e inventa, finché l'intenzione del narratore, che è quella di "ricostruire" la sua vita, evolve fino a raggiungere la consapevolezza che "la realtà può avere contenuti metaforici; ma questo non la rende meno reale", in cui risiede la chiave di comprensione dell'intera opera. La cultura indiana, coi suoi miti e le sue simbologie, traspare dalle pagine, di modo che i figli della mezzanotte "possono essere molte cose a seconda del vostro punto di vista". In primo luogo, essi erano i figli del tempo, "generati dalla storia" e figli di un "sogno collettivo".
   Salem, dopo aver raccontato della sua sorte stravolta quando era ancora in fasce, per merito o per colpa di Mary Pereira che scambiò due neonati, dopo aver narrato le vicende dei suoi-ma-non-realmente-suoi familiari, dei suoi amori, delle sue conferenze notturne, dei cambiamenti politici, dei suoi spostamenti e della guerra tra India e Pakistan in cui si ritrovò a combattere nell'altra fazione, giunge a comprendere la sua natura e alla domanda "Ma chi sono io?" risponde che è la somma di tutto ciò che è accaduto prima di lui, di tutto ciò che gli si è visto fare, di tutto ciò che gli è stato fatto. Ogni io contiene una moltitudine, perciò il suo racconto non può che essere una moltitudine di fatti, linguaggi, personaggi.
    Dal mio punto di vista, si tratta di un romanzo difficile e oggettivamente non penso possa essere definito in altro modo se non complesso. Tale complessità è data dalla natura stessa dell'opera: il disordine di un Paese che è bambino e madre allo stesso tempo si ripercuote sui sui figli liberi, frutto della storia tanto quanto del sogno. Le antitesi fondanti del testo ne costituiscono una identità singolare. Ho apprezzato i giochi stilistici dell'autore, la capacità di spaziare tra finzione e storia come fosse un tutt'uno e l'interpretazione del testo che si apre al lettore: elemento, quest'ultimo, che trovo sempre decisamente stimolante. Non nego, però, che la lettura è andata avanti a rilento, assopito l'entusiasmo in alcuni tratti, persa talvolta nella vastità disordinata dei fatti nei quali mi sono sentita catapultata.
   In sostanza, è un libro che almeno una volta nella vita bisogna leggere, perché è una finestra su un mondo nuovo, però è difficile dedicarsi a questa lettura per piacere più che per dovere. Bisogna essere preparati e convinti per incamminarsi lungo le sue pagine.
    

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