Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran


   "Leggere Lolita a Teheran" è un grido d'amore profondo per la propria terra da parte di una intellettuale iraniana  sradicatasi dal suo Paese d'origine, fagocitante gradualmente libertà e creatività. Un romanzo-ponte tra la cultura occidentale e quella islamica, in cui la letteratura serve da mezzo di analisi, comparazione e autocritica, divenendo emblema del diritto all'immaginazione, un diritto che la stessa autrice vorrebbe entrasse a far parte della Carta dei Diritti dell'Uomo.

    Tutto ruota intorno alla letteratura, dal titolo, alla struttura del testo, fino al significato del messaggio. È la letteratura a unire tra loro un gruppetto di poche ragazze con la stessa passione per i libri e la medesima inclinazione alla solitudine; studentesse selezionate dalla professoressa universitaria Azar Nafisi per dar vita a un seminario di natura "privata", in modo da proseguire a casa sua le lezioni sui romanzi in lingua inglese più significativi, dopo essersi dimessa dal suo incarico - o meglio, dopo che le sue dimissioni vengono finalmente accettate.

   Scritto in prima persona, su base autobiografica, Azar Nafisi, professoressa universitaria e scrittrice, nata e vissuta a Teheran, narra la trasformazione politica e sociale dell'Iran di fine secolo, attraverso esperienze dirette vissute durante la metamorfosi del Paese: dalla monarchia costituzionale alla Repubblica Islamica teocratica. "Per circa due anni," - racconta Nafisi - "quasi tutti i giovedì mattina, con il sole e con la pioggia, [le ragazze] sono venute a casa mia, e quasi ogni volta era difficile superare lo choc di vederle togliersi il velo e la veste per diventare di botto a colori. Eppure, quando le mie studentesse entravano in quella stanza, si levavano di dosso molto di più." Il velo e la veste appianano ogni differenza tra le donne, nascondendo età, tratti distintivi,  caratteristiche fisiche, in una parola: l'identità. Quando, nel luogo chiuso della casa della professoressa, le ragazze si scoprono, appaiono in tutti i loro colori, distinguendosi marcatamente le une dalle altre. 

    L'immagine delle studentesse, finalmente "nude", finalmente se stesse, seppure per un'ora a settimana, mi fa tornare alla mente un ricordo non troppo lontano. Ero a Istanbul, in aeroporto, dopo un viaggio piuttosto lungo. In bagno, come di consueto, mi fermai di fronte allo specchio per dare una ravvivata ai capelli e controllare la gravità dei segni della stanchezza sul mio volto. Mentre mi rimiravo, scorsi sullo specchio un riflesso inaspettato: una ragazza col velo si stava specchiando, proprio come facevo io. Poi si tolse il velo, si diede una sistemata ai folti capelli raccolti sulla nuca e indossò nuovamente il velo con meticolosità. Quando lei uscì, io stavo ancora riflettendo sulla sana e femminile vanità, che ci accomuna tutte.

     Sotto il velo e la veste, indossato per credo o per obbligo, c'è chi ha le unghia smaltate, chi indossa i jeans, chi i capelli di un biondo sorprendente. A volte, le scelte, accuratamente nascoste dal tessuto, sono un silenzioso atto di ribellione e rivendicazione della propria libertà, come il fatto di mettersi lo smalto sulle unghie nonostante il divieto ufficiale. L'Iran, dopo la rivoluzione del 1978-79 contro l'oppressione dell'autoritaria dinastia Pahlavi, subì una graduale trasformazione che la portò alla conquista della democrazia: una conquista che ben presto, per gli stessi rivoluzionari, si rivelò una sconfitta. La religione divenne mezzo di controllo politico, tanto da accentuare la discriminazione della donna, fino ad allora ancora dotata della possibilità di scelta

   La scelta di dedicarsi alla letteratura, di coltivare i propri interessi, di perseguire il proprio senso di libertà è alla base del seminario, ma anche delle lezioni universitarie della professoressa, nonché della sua estrema decisione di trasferirsi negli Stati Uniti. "Il nostro seminario [...] era un tentativo di sottrarsi per qualche ora alla settimana allo sguardo del censore cieco. In quel soggiorno ci riscoprimmo esseri umani dotati di vita propria; e poco importava quanto fosse diventato repressivo lo Stato, quanto ci sentissimo impaurite e intimidite; come Lolita tentavamo di fuggire e di creare un nostro piccolo spazio di libertà."

  Pubblicato nel 2003, l'opera si divide in quattro capitoli, che portano nomi tratti dall'universo letterario: Lolita, Gatsby, James, Austen. Ogni personaggio e autore offre una precisa chiave di lettura alla condizione sociale iraniana, dimostrazione di quanto la letteratura possa essere concreta. Il primario riferimento a "Lolita" sottolinea non solo l'eccessivo contrasto tra la trasgressione e la norma, la sconfinata bellezza amorale dell'arte e la chiusura acritica, ma anche quella che Nafisi definisce la "perfetta collusione tra vittima e carnefice", presente nel romanzo di Nabokov così come nel popolo iraniano. Spiega la stessa autrice: "Se oggi voglio scrivere di Nabokov, è per celebrare la nostra lettura di Nabokov a Teheran, contro tutto e contro tutti. Dei suoi romanzi, scelgo quello che ho insegnato per ultimo, e che è legato a così tanti ricordi. È di Lolita che voglio scrivere, ma ormai mi riesce impossibile farlo senza raccontare anche di Teheran. Questa, dunque, è la storia di Lolita a Teheran, di come Lolita abbia dato un diverso colore alla città, e di come Teheran ci abbia aiutate a ridefinire il romanzo di Nabokov e a trasformarlo in un altro Lolita; il nostro." 
    
    "Lolita", vergognoso emblema della perversione per alcuni tanto quanto capolavoro letterario per altri - oggi indiscusso pilastro narrativo, inizialmente censurato - , viene scelto dalla professoressa come punto di partenza delle sue lezioni per stimolare la capacità di giudicare un'opera a prescindere dai precetti morali. Tale senso critico serve per affermare una più completa identità di lettore, ma soprattutto una più consapevole identità di cittadino. La letteratura, così, si fa strumento per affinare le proprie capacità di giudizio, al fine di attivare allo stesso tempo interpretazione critica e creatività.

    Le rovinose conseguenze della rivoluzione islamica portarono a una accesa avversione nei confronti del mondo occidentale, incarnato dal romanzo "Il Grande Gatsby". In una realtà in cui anche i sogni si macchiano della vergogna e della minaccia dell'illegalità, il tentativo disperato di mantenere in vita il sogno americano da parte di Gatsby non può che destare ostilità nei ferventi studenti islamici. Il capolavoro di Fitzgerald, messo "sotto processo" durante le lezioni della professoressa Nafisi in un aneddoto-chiave del secondo capitolo, è l'esempio migliore per dimostrare quanto la bellezza artistica non coincida con la moralità del messaggio e per svelare le esistenti debolezze dell'apparente invincibile forza americana. Ciò che più rimane vivo di questo romanzo dei Roaring Twenties è, però, l'idea del sogno: la luce verde alla quale ci si aggrappa e per la quale ci si distrugge pur di vivere. Il sogno è da considerare nel suo significato ambivalente: da un lato, è la speranza che la stessa autrice vuole infondere ai suoi studenti e, in senso più ampio, alle nuove generazioni; dall'altro, è il fallimento dell'obiettivo conseguito con la rivoluzione che ha deluso quanti vi credettero e ha condotto all'auto-distruzione. 

    In un Paese che ha iniziato la sua regressione e in cui le donne perdono quei diritti di cui potevano avvalersi fino a poco prima, sembra impensabile poter continuare a vivere. La fuga è la strada migliore per molti, ma la fuga è anche un gesto di debolezza. Se tutti scappano, chi salverà l'Iran? Il coraggio dei personaggi femminili di James sembra mancare; in realtà a mancare è la chiarezza: c'è più coraggio a fuggire o a rimanere? Alla domanda "Sei felice?", Nassrin, una delle studentesse del seminario, risponde: "Non lo so, nessuno mi ha mai insegnato a essere felice." In Iran, si sa cosa è giusto e cosa è sbagliato dal punto di vista religioso, cosa è legale e cosa no dal punto di vista politico - distinzioni religiose e politiche che coincidono perfettamente - , ma nessuno sa cosa sia la felicità, cosa significhi essere felice. Con l'età per contrarre matrimonio abbassata a nove anni, l'obbligo di indossare il velo a prescindere dal proprio credo, il divieto di frequentare un uomo che non sia un parente, come poter pensare alla felicità? La felicità è quella condizione raggiunta dalle eroine nei romanzi di Jane Austen, in cui ci si sposa per amore, per scelta e non per scelta altrui. Eppure, in un Paese in cui ancora c'è Lolita o Gatsby, in cui ancora si parla di James o Austen, in cui ancora si respira la letteratura, la luce verde non si è ancora spenta. Magari lontana, magari fioca, la speranza è coltivata e risiede nella letteratura stessa, nel diritto a capire cosa sia la felicità, nel diritto a scegliere, a sviluppare il proprio senso critico e nel diritto all'immaginazione.

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