Elsa Morante, La Storia

La "paralisi dell'infelicità" nel secondo dopoguerra: 
una narrativa metastorica    

Se Elsa Morante avesse avuto la possibilità di continuare a scrivere, dopo i puntini di sospensione che "chiudono" La Storia, forse non avrebbe aggiunto altro: tutto quello che doveva dire è stato detto e nulla, dall'ultimo anno citato, il 1967, è realmente cambiato. Basta leggere questo passaggio per rendersene conto:

   In luogo di servire all'uomo, le macchine lo asserviscono. Lavorare per le industrie e comperarne i prodotti diventano le funzioni essenziali della comunità umana. Alla proliferazione delle armi si accompagna una proliferazione di beni di consumo irrisori e subito scaduti per le necessità del mercato (consumismo). I prodotti artificiali (plastiche) estranei al ciclo biologico trasformano la terra e il mare in un deposito di rifiuti indistruttibili. Sempre più si allarga, sui territori del mondo, il cancro industriale che avvelena l'aria, l'acqua e gli organismi e assedia e devasta i centri abitati, così come snatura e distrugge gli uomini condannati alle catene nell'interno delle sue fabbriche. Per l'allevamento sistematico di masse di manovra al servizio dei poteri industriali, i mezzi di comunicazione popolari (giornali, riviste, radio, televisione) vengono usati per la diffusione e la propaganda di una 'cultura' deteriore, servile e degradante, che corrompe il giudizio e la creatività umana, occlude ogni reale motivazione dell'esistenza, e scatena morbosi fenomeni collettivi (violenza, malattie mentali, droghe).

   Nonostante numerosi fatti siano accaduti fino ad oggi, la situazione generale sembra bloccata, o meglio paralizzata, a quanto descritto dalla scrittrice romana in questo capolavoro: asservimento delle macchine, armi, consumismo, inquinamento, mass media, droga sono tematiche assolutamente attuali
    Non è semplice aggiungere altro su questo libro: quello che doveva essere spiegato è stato spiegato. Mi "limiterò", dunque, - sebbene di limite non si tratti - alla descrizione di due concetti fondamentali per la comprensione del testo in questione: la "paralisi dell'infelicità" e quella che definisco una "narrativa metastorica". Il mio giudizio, qui, è piuttosto superfluo: inutile ribadire la magnificenza di un tale capolavoro, ma sicuramente aggiungerò due parole al riguardo.

    "La Storia", pubblicato nel 1974, è un romanzo storico di duplice natura: corale e individuale. Ognuno dei due aspetti è visceralmente connesso all'altro: è un romanzo corale perché la vera protagonista è la Storia, quella con la lettera maiuscola che dà il titolo all'intero romanzo, ovvero i fatti accaduti nella seconda metà del Novecento, che coinvolgono numerosi protagonisti, le cui vicende si intrecciano a quelle della maestra Ida Ramundo; ma è anche un romanzo che definirei "individuale", incentrato, cioè, sul ruolo del piccolo Giuseppe, conosciuto come Useppe, su cui i fatti storici da un lato si riversano direttamente, dall'altro sembrano appartenere ad una dimensione altra. Mi spiego meglio.

    Useppe, secondogenito di Ida, nasce nelle prime pagine del libro come risultato di una violenza "storica" e fisica, e la sua vita procede scandita dal ritmo degli anni del dopoguerra e da quello dei capitoli del romanzo. Ci troviamo nella Roma stuprata dalle conseguenze della Seconda Guerra Mondiale, descritta attraverso la violenza fisica del giovane soldato tedesco Gunther sulla indifesa maestra Ida. Da questa doppia violenza nasce Useppe, bambino precoce dagli occhi azzurri, che conservano già in sé il presagio finale (inevitabile data l'immedesimazione del piccolo e con la Storia e con il libro, in un'ottica di immedesimazione metanarrativa). Ida, vedova di Alfio Mancuso e già madre dell'adolescente Antonio, detto Nino o Ninnuzzu, nasconde il segreto della nuova gravidanza con la sua silenziosa riservatezza, ma con una forte determinazione.
    Da questo momento la vita di Useppe procede come quella di un qualsiasi bambino alla scoperta del mondo, ma la sua sorte è intrecciata a quella della Storia: se da un lato i suoi occhi si riempiono delle violenze e della miseria della guerra, la Storia sembra non scalfire troppo la storia del piccolo, che cresce e gioca e scopre il mondo. 
   Il suo ruolo si accentua nel corso della lettura, fino a diventare decisivo nell'ultimo capitolo, quando il suo vagare con il pastore abruzzese Bella ne fa un esempio di neorealismo e picarescaPrima di giungere all'ultimo capitolo, però, la sua è una figura quasi secondaria, un personaggio messo lì per sottolineare la miseria e i sacrifici della madre Ida, i cui spostamenti - inevitabili dopo la distruzione della loro casa - danno modo di porre l'attenzione su tanti altri personaggi incontrati lungo il percorso, dalla numerosa famiglia de I Mille, durante la permanenza a Pietralata insieme agli sfollati, a Carlo Vivaldi, poi conosciuto col vero nome di Davide Segre, alla famiglia Marrocco che li ospitano in un secondo momento. Ida, con la sua estrema riservatezza, porta con sé un doppio segreto: l'identità nazista del padre di Useppe e l'origine di lei per metà ebraica.
   Ogni capitolo porta come titolo un anno, dal generico "19**" che ne racchiude diversi, agli anni specifici come "1941", "1942" e così via fino al "1947", aprendosi sempre con la rassegna dei fatti principali accaduti in quei mesi. Tali fatti incombono in un modo o nell'altro sulla vita di Ida e delle persone che la circondano, tanto che l'intero romanzo può essere definito un'enciclopedia sulla Seconda Guerra Mondiale e le sue conseguenze, racchiudendone il punto di vista storico, ma anche quello familiare, filosofico, per non parlare dell'eredità ideologica, evidente in riflessioni sociali sulla classe operaia e sulla borghesia, ma anche teologiche
   La vera vittima della Storia, però, non è Ida, né il figlio Nino o Davide Segre, le cui tragiche sorti sono direttamente collegate alla guerra, ma Useppe: è lui, il più piccolo, figlio di ebrea e nazista, figlio della doppia violenza, figlio della guerra a essere l'unica vera vittima e l'unico vero protagonista. La storia e quella Storia nascono e muoiono con lui. Dopodiché ci saranno altre storie e un'altra Storia, che continua ignorando lo strascico delle sue conseguenze. In Useppe, quindi, si concentra la riflessione sulla Storia, come se attraverso il suo personaggio si riflettesse tutto ciò accaduto prima, durante e dopo la sua nascita. In altre parole, la narrazione delle sue vicende serve come punto d'appoggio alla riflessione metastorica.

    Altro punto, citato per primo ma meglio comprensibile dopo aver chiarito la natura del libro, è il concetto di "paralisi dell'infelicità", espresso da Davide all'amico Nino, in occasione della sua esperienza come operaio, con queste parole:


Era [...] la paralisi dell'infelicità. Per qualsiasi azione reale, non importa se faticosa o rischiosa, il movimento è un fenomeno di natura; ma davanti all'irrealtà contro natura di una infelicità totale, monotona, logorante, ebete, senza nessuna risposta, anche le costellazioni - secondo lui - si fermerebbero...


    La paralisi, concetto chiave nella narrativa di Joyce, si carica di un significato ancora più grave e probabilmente insuperabile: di fronte all'assurdità della guerra tutto si ferma; il mondo è bloccato, la società immobilizzata, i movimenti vitali spezzati. Ciò accade perché i fatti storici di metà Novecento si rivelano tanto impensabili da apparire irreali e l'irrealtà del fenomeno paralizza la natura stessa, capace di agire e reagire solo nel campo del reale. La Storia, di fatti, appare più irreale della storia di Useppe: la finzione sembra più credibile della realtà. 
    Elsa Morante ha saputo coniugare testimonianza ed estro creativo in un tessuto organico, completo, struggente, realistico, straziante, coinvolgente.

    Ho letto questo romanzo di poco più di 600 pagine in questi giorni d'estate. La propensione più diffusa è quella di dedicare la calda stagione a letture "leggere", contrariamente a quanto sto facendo io, in vena di colmare i vuoti dei classici approfittando del maggior tempo a disposizione. Per i classici, però, non c'è un momento ideale, o per meglio dire è sempre il tempo ideale. "La Storia" è un romanzo che deve essere assolutamente letto, riletto, approfondito e per cui non bastano queste impetuose riflessioni a descriverlo. Ne avrei mille altre da fare, ma non sono qui a scrivere una tesi di laurea, solo a raccomandare la lettura del capolavoro, dando una mia personale breve interpretazione.
    Nonostante le 600 pagine e le tematiche profonde, la narrazione, ben cadenzata, trascina il lettore con sé, anche se si legge al mare, sotto l'ombrellone. Lo stile è pulito, elegante, il linguaggio chiaro, i registri variegati. Particolarità degna di nota è l'uso del punto di vista di una narratrice, la quale racconta le vicende dei Ramundo-Mancuso e della società di quello spaccato, nel suo anonimato a mo' di testimonianza dettagliata, talvolta anticipando una fine presagita, inevitabile, ma che ti lascia comunque con gli occhi lucidi.

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