Elena Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta

   Il terzo volume della quadrilogia, figlia della mano maestra di Elena Ferrante, è dedicato al cosiddetto “tempo di mezzo”, quello che intercorre tra la giovinezza e la piena maturità. La matassa intrecciata del primo volume continua a sciogliersi, a volte – pare – ad ingarbugliarsi ancora di più, per tener vivo l’interesse e la curiosità nonostante pagine e pagine di storia. Già, di storia: quella delle due protagoniste, Elena la narratrice e Lila, “lo specchio delle incapacità” dell’amica, ma anche la Storia che si srotola con loro e che le circonda con tutti i fatti dell’Italia degli anni ’70 che coinvolgono direttamente i personaggi. 
   “Storia di chi fugge e di chi resta” è un titolo che mette in contrapposizione due tendenze – ancora oggi attuali – nei confronti del proprio paese d’origine: restare, confondersi col rione, provare ad emergere dall’interno o allontanarsi, fuggire, realizzarsi altrove. Lila, che resta, è parte viva del rione, dove ha imparato a vivere e a sopravvivere sin da bambina; Elena, che fugge, si stabilisce a Firenze, città ordinata e stimolante per una scrittrice. Chi rimane nel rione spesso invidia i fuggitivi; chi trova fortuna fuori sente di aver abbandonato una parte di sé. Chi rimane nel rione, però, è destinato a scomparire, insieme alle sue voci, insieme ai suoi fatti, insieme al rione stesso ed Elena, con la sua penna, desidera dare inchiostro a quelle tracce affinché non muoiano del tutto.
   Mentre Lila “crea romanzi nella realtà” muovendo le persone come marionette, Elena si gode la fama iniziale per la pubblicazione del suo romanzo d’esordio, ispirato ad episodi e sentimenti privati. Ecco che emergono i dubbi, dopo l’entusiasmo iniziale, tipici dello scrittore: la consapevolezza di essersi esposto alle critiche, l’insicurezza sul valore del proprio libro, la preoccupazione per la reazione del pubblico su un tema forte come quello della sessualità, che trova leggero conforto nelle parole di un esperto letterato: “l’oscenità non è estranea alla buona letteratura e l’arte vera del racconto, se pure passa il limite della decenza, non è mai scabrosa”. La Ferrante, attraverso le vicende della protagonista sua omonima, dà modo di riflettere sulla letteratura stessa e di affrontare , in un’ottica metanarrativa, i problemi che circondano la scrittura, la pubblicazione e la promozione di un libro.

Ogni volta che vedevo il volume in qualche vetrina, tra altri romanzi appena usciti, mi sentivo dentro un misto di fierezza e di paura, un misto di piacere che finiva in angoscia. Certo, il racconto era nato per caso, in venti giorni, senza impegno, come un sedativo contro la depressione. Inoltre sapevo bene cos’era la grande letteratura, avevo lavorato molto sui classici, e non mi era mai venuto in mente, mentre scrivevo, che stessi facendo qualcosa di valore. Ma lo sforzo di trovare una forma mi aveva coinvolta. E il coinvolgimento era diventato quel libro, un oggetto che mi conteneva. Ora io ero lì, esposta, e vedermi mi dava in petto colpi violenti. Sentivo che non solo nel mio libro, ma in genere nei romanzi, c’era qualcosa che davvero mi agitava, un cuore nudo e palpitante, lo stesso che mi era schizzato fuori dal petto nell’attimo lontano in cui Lila aveva proposto di scrivere insieme una storia. Era toccato a me farlo sul serio.

   La distanza tra le due amiche si fa più massiccia: Elena indaffarata nel suo ruolo di scrittrice, presto moglie di un professore dal cognome rinomato, Lila sprofondata in povertà, a sgobbare in fabbrica per mantenere lei e suo figlio. Come accade dal primo volume, la fortuna dell’una coincide con la sfortuna dell’altra, ma gli equilibri non fanno altro che invertirsi. I temi politici qui si accentuano attraverso personaggi che incarnano ideali diversi, quali Gino, il fascista, figlio del farmacista, Bruno Soccavo, l’imprenditore padrone, Nadia e Pasquale, che impugnano la lotta di classe. Di pari passo con il ruolo sociale di ciascun personaggio, il linguaggio subisce una metamorfosi: il dialetto, segno di arretratezza, ripudiato da chi studia e utilizzato solo in determinati spazi e contesti, inizia ad emergere anche negli ambienti intellettuali socialisti, dove l’uso diretto di termini volgari diventa segno di libertà di pensiero e di rifiuto delle ristrettezze della tradizione. Elena, dopo aver studiato e lottato per allontanarsi dalle sue origini, si rende conto che queste non solo tornano con maggior forza ma si impongono oltre i confini in cui erano delimitate. Come riflette la protagonista, “ognuno si portava nel corpo i suoi antenati”, per cui, sebbene ci si possa allontanare, non si può mai realmente fuggire da ciò che si è.
    L’immobilità delle origini si contrappone ad una società in cambiamento, dove la lotta di classe, l’affermarsi del socialismo, il fiorire delle idee femministe suggeriscono il trasformarsi della realtà.
    Oltre ai temi storici e politici – mai affrontati con pesantezza, ma naturalmente intrecciati ai fatti descritti dalla narratrice - , oltre al tema della scrittura, della sessualità e a quello, consolidato, dell’amicizia, trova spazio anche quello della maternità. Anche Elena, come Lila, diventa madre e ne sente la gioia e il peso, l’amore e l’ostacolo. Il conflitto tra l’essersi laureata e fare la madre-casalinga si accentua, in cerca di un armistizio personale tra il realizzarsi come individuo e assicurare stabilità alla sua famiglia.
   Elena Ferrante, ancora una volta, ti lega ad una storia che si sente pulsare tra le pagine, una storia viva, di personaggi vivi, di emozioni vive. Non resta che abbandonarsi al quarto e ultimo volume, alla ricerca di quella risposta che ti incastra nel primo libro, con l'irrequietezza di giungere alla fine e, allo stesso tempo, la voglia di godere con calma di quelle che saranno le ultime pagine.

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