Elena Ferrante, Storia della bambina perduta

   Con “Storia della bambina perduta”, ultimo libro della quadrilogia firmata Elena Ferrante, si chiude la storia aperta col primo romanzo, narrando la maturità e la vecchiaia delle due donne protagoniste, Elena, detta Lenuccia, e Lila, e con loro gli altri numerosi personaggi. Si chiude la storia delle persone coinvolte, ma anche la storia di un’epoca, quella delle trasformazioni sociali, politiche ed economiche avvenute in Italia a partire dalla seconda metà del Novecento.
   Riprendendo le fila del racconto a partire dagli ultimi anni ’70, le vicende che coinvolgono le due amiche le allontanano e le avvicinano più volte. Avevamo lasciato Elena a Firenze, con le figlie e con un nuovo antico amore, per poi assistere, in questo volume, al suo ritorno a Napoli. Elena e Lila tornano a condividere lo stesso contesto, a vivere nella stessa città e, infine, il cerchio si chiude, tornando ad abitare nella stessa palazzina. Vicine di casa da bambine, vicine di casa da adulte, dopo partenze, ritorni, allontanamenti, matrimoni, divorzi, morti, nascite. 
   La struttura ad anello le ingloba nei confini del rione, dove si incrociano i destini, dove comandano i Solara, dove periscono vittime e colpevoli, dove si sopravvive, ci si vendica, si impazzisce, si condivide; ma è anche un rione dove i buoni e i cattivi, in confronto con la realtà esterna, fuori da quei confini, sembrano meno buoni e meno cattivi, dove gli abitanti, anche quando vogliono far morire ammazzati gli altri, si aiutano tra loro quando sono in difficoltà; è un rione dove si ama e si odia allo stesso tempo, come l’amicizia di odio e profondo amore tra Lila, la “cattiva”, e Lenuccia, la scrittrice “buona”.

Solo nei romanzi brutti la gente pensa sempre la cosa giusta, dice sempre la cosa giusta, ogni effetto ha la sua causa, ci sono quelli simpatici e quelli antipatici, quelli buoni e quelli cattivi, tutto alla fine ti consola.

   Le riflessioni sulla scrittura sono sempre più acute. In un contesto difficile paragonato alle città in cui Elena ha vissuto, la scrittura non può che farsi denuncia sociale: sotto la pressione di Lila, determinata a spingere l’amica all’utilizzo della scrittura come strumento quasi fisico, Elena abbraccia quell’impegno, sebbene timidamente. La scrittura cambia anche “fisicamente”, di pari passo con l’innovazione tecnologica: dal calamaio alla penna a sfera, dalla macchina da scrivere ora si arriva al computer. 
   Al desiderio di vivere di Lenuccia, di cui è testimonianza il valore della scrittura come mezzo di sopravvivenza, si contrappone la volontà di cancellarsi di Lila. Cancellazione che non coincide con suicidio, ma con l’essere dimenticata. Il nuovo libro di Elena, incentrato sulla loro amicizia “splendida e tenebrosa”, se da un lato ripercorre le tracce del loro rapporto immortalando Lila, dall’altro la fa scomparire per sempre dal mondo reale…
   I dubbi su chi sia stata effettivamente la scrittrice dell’opera, se Elena che scrive di professione o Lila che guida e stimola le azioni altrui, si sciolgono del tutto nella dichiarazione di paternità – o sarebbe meglio dire “maternità” – del libro da parte di Lenuccia: è lei che ha deciso di scrivere, è lei la vera e unica autrice della storia.
   Le due amiche, un tempo madri delle bambole buttate in uno scantinato  (Tina e Nu), poi madri di figli veri (Tina, Rino, Dede, Elsa e Imma) tornano ad essere madri di quelle bambole: madri del passato, madri di sentimenti spogli, crudi e veri. 
   Elena Greco – e la Ferrante stessa in un certo senso – anticipa, a livello metanarrativo, la connessione tra la bambola Tina, scomparsa nel primo volume de “L’amica geniale” e la figlia di Lila, chiamata Tina anch’ella (da Nunzia, Nunziatina, Tina). Una connessione su cui i lettori riflettono cogliendo le analogie tra il passato e il presente, ma che viene svelata dalla narratrice come pura fantasia, inutile ricerca di nessi ordinati che nella realtà non trovano logica, sono solo semplici e disparati dettagli.
   Il viaggio nella quadrilogia si conclude con un senso di ammirazione e soddisfazione, timore e desiderio di non ritrovare in altri libri quella stessa atmosfera di delicatezza, completezza ed efferatezza che diventa caratteristica inimitabile di quello che definisco, senza alcun dubbio, un capolavoro dei nostri giorni.

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